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  • Immagine del redattore Annina Moffa

Lo sgretolamento del sistema moda

Aggiornamento: 8 mag 2020

La moda, dove ogni figura professionale assume un ruolo essenziale, è come un grande Jenga, togliendo un tassello l'intero sistema collassa su se stesso. La moda è in una fase di standby globale e solo il tempo potrà offrire risposte concrete. Negozi chiusi, dalle catene del fast fashion alle boutique di lusso, quantità di merci invendute nei magazzini e investimenti pubblicitari ai minimi storici: una crisi senza precedenti.


In questo scenario apocalittico, il termine "cancellazione" è tra i trend topic di tutti i paesi.

La conta dei danni è l'unica certezza del momento con perdite da capogiro. Il fashion muove cifre esorbitanti pari a 2300 miliardi di euro all'anno. Oltre ai cali di vendita è la rivoluzione prospettata nel settore moda, che potrebbe causarne un totale snaturamento. Tutti gli attori della filiera e a tutti i livelli saranno coinvolti. I primi a pagarne le conseguenze sono stati gli sfruttati e i sottopagati delle fabbriche cinesi, vietnamite e cingalesi, maggiori produttori di fast fashion che già alla data attuale si ritrovano disoccupati.



A loro si aggiungono le figure professionali che ruotano attorno alla macchina della moda:fotografi, make-up artists, hair stylists, modelli e influencers.Un effetto domino che ha inabissato in una crisi senza precedenti,una dopo l’altra tutte le nazioni. Nella lista dei coinvolti non si trovano in una posizione migliore le aziende del lusso fondate sull’artigianato di qualità, che necessita di lunghi tempi di produzione per la confezione delle merci.



Negozi online

Se non si può fare shopping nei negozi fisici a causa delle chiusure imposte e c’è una conseguente riduzione della domanda, perché i consumatori finali sono segregati anche essi nelle abitazioni, l'alternativa più ovvia sarebbe la vendita on-line. Queste tuttavia non compensano il mercato live. Nel caso particolare del mercato del lusso, l’on-line rappresenta soltanto il dieci per cento degli introiti. Se le aziende si concentrano sul salvataggio delle vendite residue, non è da meno l’impatto psicologico sulla popolazione. Le persone con l’incertezza del futuro, hanno meno voglia di spendere soldi nel superfluo in cui la spesa in abbigliamento rientra in larga parte, visto anche la tendenza all’accumo diffusa fino a prima del virus. In effetti il covid 19 ha inceppato un meccanismo che alimentava sé stesso in modo insaziabile da lungo tempo.



Focus sulla moda a livello mondiale

Tra i paesi sommersi dallo tsunami la Cina già da febbraio ha dovuto bloccare molti ordini, mentre l'Italia da marzo ha interrotto l’intera produzione di abbigliamento. Carlo Capasa, presidente della Camera della moda italiana, in una lettera destinata al governo pubblicata su repubblica, ha confermato che se la chiusura delle fabbriche andrà oltre il 20 aprile la moda italiana, che copre il 41 per cento della produzione totale , rischia di perdere la sua predominanza del mercato dell’Unione. Capasa sottolinea anche l’evidenza della stagionalità del settore, un’industria che riparte ogni sei mesi con nuove collezioni da presentare , vendere e consegnare e i cui tempi logistici non possono comunque subire contrazioni.


In dettaglio qualora le aziende non saranno pronte a partire dalla metà di aprile , i tempi tecnici per consegnare le produzioni autunno/inverno 2020 non saranno sufficienti, perché queste vanno inviate entro luglio in tutto in mondo. A catena non si potranno produrre le collezioni primavera/estate 2021 per la vendita di giugno in aggiunta al fatto che gli addetti ai lavoro dovrebbero lavorare comunque in remoto. Il clima di sfiducia è dilagante e le domande sul futuro non sembrano avere risposte definite. Tra i creativi qualcuno cerca di reagire, ma sono molti gli stilisti che hanno optato per riproporre nel 2021 le collezioni non sfruttate nell’ anno in corso.



È di Francesco Tombolini, presidente della Camera dei buyer, per esempio, l’idea di saltare l’anno in corso, come se non fosse mai esistito e ripartire nel 2021.

Giorgio Armani, autentico meno il suo afflato umano oltre alle ingenti somme donate a favore nella lotta contro il virus, ha convertito parte della sua produzione nella fabbricazione di presidi medici.

L’anziano designer si è poi rivolto all’intero sistema moda sottolineando il suo declino avvenuto con l’adozione di pratiche operative del fast fashion che impone a ciclo continuo, in un circolo vizioso dove gli unici obiettivi sono la vendita e i guadagni sempre maggiori. «Lavorare così è immorale» si sfoga dopo una lunga riflessione Armani, «dopo l’emergenza bisognerà ripartire dalle priorità, rallentando i ritmi forsennati che il fashion system ha avuto negli ultimi decenni».



In ultimo arrivano i media. Giornali, riviste e piattaforme subiranno ingenti tagli sulle inserzioni pubblicitarie. Non si potranno avere molti servizi fotografici con le nuove collezioni e sarà pure difficile adeguare i contenuti e scegliere i toni giusti, senza sembrare troppo sconnessi dagli interessi e dalle preoccupazioni del momento. Willy Vanderperre, per esempio, per i-D ha fotografato 19 modelle videochiamandole nelle loro case. Escamotage come questi saranno all’ordine del giorno a stretto giro.



Non tutti i mali vengono per nuocere. A ridimensionarsi sarà anche la categoria degli influencers, che nonostante la complessità del momento, si ritrovano a dover mantenere attivo l’interesse e la fiducia dei propri proseliti, i followers, e soprattutto delle aziende che li sostengono a livello economico. Il sito di moda Business of Fashion ha optato per la scelta non aggressiva di spingere i followers all'acquisto, nell’ottica di uno stile di vita più sobrio. L’influencers per antonomasia, Chiara Ferragni, in una veste più casalinga e confortevole, rassicura i suoi adepti social invitandoli a restare a casa nell’interesse di tutta la comunità.



Le perdite in termini numerici

Fare previsioni è difficile. Lo scenario è in continua evoluzione, da un’ora all’altra le priorità cambiano, le restrizioni vengono estese o contratte. Nessuno sa quale evoluzione potrebbe avere l’epidemia e quello che gira sono solo ipotesi poco attendibili. I dati sono l’unica certezza: negli Stati Uniti, durante la seconda settimana di marzo, l’e-commerce di abbigliamento e accessori è calato del 23%. Si stima che le perdite potranno arrivare fino al 90%. Nel Regno Unito le vendite in negozio – e pure online- sono calate del 34% con un calo complessivo del 18%.


Per la ripresa avranno un ruolo importante anche le misure di sostegno avviate dal governo, ma, nel complesso, saranno determinanti i cambiamenti strutturali nel sistema, come le sfilate riprenderanno e il comportamento dei consumatori. L' attenzione inoltre, cade sulle modalità di ripartenza della Cina, cioè sulla gestione delle imprese e dei propri affari interni.

Un episodio verificatosi qualche giorno fa in Cina è quello dello “spending revenge”, nato proprio in Cina alla fine degli anni 80, definito anche revenge shopping, ovvero “fare l’acquisto di prodotti per vendetta” contro l’isolamento, il virus e l’immobilità forzata. È nella cosidetta fase due che i cinesi hanno letteralmente assalito i negozi di lusso e lo dimostra il boom di incassi riportati dalla nuova boutique della maison francese Hermès a Canton, riaperta solo sabato scorso, dopo le lunghe settimane di lockdown, che in una sola giornata ha registrato un incasso record mai verificato prima in Cina di circa 2,7 milioni di dollari. Sembra che il desiderio cinese sia la consolazione con gli acquisti di lusso e se questa è la tendenza, i prossimi mesi si preannunciano magnifici per i conti del comparto del lusso.



Le paure sono tante e le declinazioni disparate. Le possibilità che si palesano, specie in Europa e negli Stati Uniti, sono quelle di puntare sulla qualità e durata di un prodotto non più soggetto alle mode del momento, con attenzione crescente per l'ambiente e un’ondata di ritorno al minimalismo. E se la storia è ciclica perché non si fa tesoro degli errori passati, non è da escludere che, come accaduto dopo tragedie e rivoluzioni nei secoli e decenni scorsi, ci saranno cambiamenti radicali anche nel modo di vestire.


Durante la Seconda Guerra Mondiale, per esempio, mentre donne iniziavano a indossare soprattutto i pantaloni, nacque il New look di Christian Dior, uno stile molto femminile con abiti stretti in vita e gonne ampie e l’ormai iconica Bar Jacket, segno distintivo della Maison.

La crisi dei grandi magazzini e dei centri commerciali diventerà più profonda e sarà ancora più insidiata dalla vendita online. Saranno colpiti i piccoli marchi e gli stilisti emergenti, mentre i colossi della moda, che hanno più risorse, ne soffriranno probabilmente meno; il divario tra ricchi e meno ricchi crescerà riverberandosi anche nella moda.


Potrebbero cavarsela le grandi aziende di abbigliamento sportivo, che sono avvantaggiate da un’offerta versatile, comoda e funzionale e potrebbero emergere le aziende nate direttamente on-line che lavorano a stretto contatto con il cliente per rivendere moda vintage o capi su misura. Rischiano più di tutte le grandi catene di fast fashion, con la loro massa di vestiti anonimi di scarsa qualità che si sta ammassando nei magazzini. Le ipotesi al vaglio, nate da questo cambiamento internazionale, evidenziano scenari futuribili anche positivi: col deterioramento del fast system potrebbe esserci la rivalutazione dell'artigianato, del made in Italy, della qualità sulla quantità e dall'unicità del prodotto sulla catena di montaggio.



Annina Moffa, The Papercut

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